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Shoah - Il Giorno della Memoria

 
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Geografia della vita nel ghetto

di Sergio Luzzato

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16 gennaio 2010

Il 27 gennaio di quest'anno, il Giorno della Memoria non somiglierà a nessuno dei precedenti per almeno una ragione: perché nel frattempo è scomparso Marek Edelman. Il più rappresentativo degli ebrei sopravvissuti all'insurrezione del ghetto di Varsavia aveva novant'anni al momento della morte, nell'ottobre scorso. Era dunque molto vecchio, ma ancora pochi mesi prima, il 19 aprile 2009, aveva commemorato alla sua maniera il 66º anniversario dell'insurrezione: separatamente da ogni celebrazione ufficiale, percorrendo a piedi (da ultimo, in carrozzella) le strade dei quartieri varsoviti divenuti ghetto sotto l'occupazione tedesca, raccogliendosi a meditare davanti a certe lapidi. Fedele alla memoria dei compagni caduti, ma fedele altrettanto agli ideali socialisti del Bund, il partito operaio ebraico della sua giovinezza: i medesimi ideali per cui aveva da sempre rigettato il sionismo e per cui aveva rinunciato, dopo la guerra, a emigrare in Israele.

La morte di Marek Edelman segna un momento simbolico di svolta nel rapporto fra la storia del ghetto di Varsavia e la sua memoria. Conclude "l'era del testimone", la stagione di una memoria intesa come esperienza vissuta. Consegna definitamente alla storia i due anni e mezzo intercorsi fra il novembre 1940 e il maggio 1943, durante i quali 450mila ebrei di Polonia vennero rinchiusi in tre chilometri quadrati al centro della capitale, uscendone vivi soltanto per essere gasati a Treblinka. Quest'anno, il Giorno della Memoria deve misurarsi con la scomparsa di colui che della memoria polacca della Shoah si sentiva, a buon diritto, Il guardiano (così il titolo di una riflessione autobiografica di Edelman pubblicata da Sellerio nel 1998).

Ma quest'anno, come per un risarcimento della perdita, i lettori occidentali dispongono di un nuovo, meraviglioso strumento per avvicinarsi alla storia del ghetto di Varsavia. È l'edizione americana di un librone di novecento pagine, uscito in Polonia nel 2001 per opera di due specialisti locali della Shoah, Barbara Engelking e Jacek Leociak. Se in inglese il titolo suona asciutto, puramente descrittivo, il sottotitolo riesce tanto suggestivo quanto esatto: The Warsaw Ghetto. A Guide to the Perished City. Proprio di questo si tratta, di una guida alla città ebraica dapprima riempita e sigillata, poi svuotata e distrutta dagli uomini del Terzo Reich.

Grazie a una varietà di mappe, si ritrovano nel volume i confini geografici del ghetto, la topografia delle strade, il percorso dei mezzi di trasporto. Ma soprattutto si ritrova la dislocazione precisa, infallibile – sembra di stare su Google Maps – di ogni singolo luogo, più o meno pulsante di vita o di morte. Case private, uffici pubblici, sinagoghe, commissariati di polizia, caserme dei pompieri, parcheggi delle ambulanze, ospedali, farmacie, laboratori, scuole dichiarate o segrete, cimiteri, giardinetti, mense popolari, orfanotrofi, bagni comuni e bagni rituali, ricoveri per profughi, uffici postali, buche delle lettere, saloni di coiffure, lavanderie, sartorie, calzolerie, gioiellerie, negozi di alimentari, pompe funebri, imprese artigianali, biblioteche legali o illegali, librerie, stamperie clandestine, teatri, ristoranti ordinari o kosher, scuole rabbiniche, caffè, cabaret, sedi di riunione delle forze di resistenza, depositi di armi, bunkers... per il lettore di questa guida, la geografia del ghetto non ha più misteri.

Ritrovare la storia nel segno della geografia è tanto più importante, in quanto la dimensione spaziale fu costitutiva dell'esperienza del ghetto di Varsavia. Onnipresenti, i muri di recinzione conferivano all'enclave ebraica l'aspetto inatteso di una città orientale. E fino all'estate 1942, pareva che ogni cosa lì dentro succedesse all'aperto, davanti a tutti. Il ghetto brulicava di gente in perpetuo andirivieni, risuonava delle voci dei passanti come delle urla dei gendarmi, vibrava dei traffici nei mercati dell'usato, sussultava a ogni movimento dei militari tedeschi, celava a malapena l'indaffararsi dei contrabbandieri, ed esibiva ininterrottamente – suo malgrado – lo spettacolo della morte: cadaveri nudi sul marciapiede, vinti dal tifo, dalla fame, dagli stenti. Solo nell'autunno del '42, dopo la prima ondata di deportazioni verso Treblinka, il ghetto avrebbe assunto l'aspetto di una città non più strapiena ma deserta, non più vociante ma silenziosa. E solo nella primavera del '43, dopo il soffocamento della disperata insurrezione, i tedeschi ne avrebbero fatto un paesaggio vuoto, immobile, lunare: il paesaggio che ci è rimasto negli occhi attraverso il film di un superstite del ghetto di Cracovia, Il pianista di Roman Polanski.

Quasi tutte le fotografie del ghetto di Varsavia pervenute sino a noi furono scattate dagli occupanti tedeschi: compresa quella – dolorosamente celebre – del bambino che alza le mani mentre viene trascinato con altri fuori da un rifugio. In compenso, furono gli ebrei polacchi a raccogliere la maggioranza dei documenti non fotografici che hanno consentito a Engelking e Leociak di ricostruire la vita e la morte del ghetto nei più minuti dettagli. Riunendosi intorno alla figura di uno storico di professione, Emanuel Ringelblum, un gruppo di intellettuali fondò allora un'istituzione unica nella storia dell'Europa occupata: l'archivio clandestino del ghetto, dove si radunavano materiali sulla storia del presente destinati alla memoria del futuro.

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16 gennaio 2010
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